Dietro la riduttiva definizione “sindrome dei Balcani” si cela una vera e propria strage, dovuta presumibilmente agli effetti delle polveri tossiche sprigionate dagli armamenti impiegati nell’ultimo ventennio nel corso delle missioni internazionali di pace. Di queste vittime non vi è memoria; in loro nome non sono stati eretti monumenti, intitolate piazze, istituite giornate del ricordo. Il caso della sindrome dei Balcani rappresenta il paradigma eclatante di quella che può essere definita una “memoria senza dimora”, la circostanza perfetta in cui le politiche dell’oblio e i processi di amnesia culturale hanno potuto agire in tutta la loro efficacia, fino a giungere a una negazione sistematica degli eventi stessi. Questa ricerca è perciò un viaggio all’interno dei meccanismi che hanno determinato l’oblio sociale e istituzionale della memoria pubblica di un frammento del nostro recente passato, in un percorso analitico il cui obiettivo è la scomposizione e l’oggettivazione dei processi di delegittimazione ai quali è stata sottoposta una tragedia di enormi proporzioni. È anche la denuncia delle pesanti condizioni di inquinamento ambientale causato dalle esercitazioni che hanno luogo all’interno dei nostri poligoni militari, nei quali vengono sperimentati armamenti letali, munizioni che sprigionano nano e microparticelle il cui elevato livello di tossicità è stato accertato da innumerevoli studi. Vittime militari e civili, accomunate dallo stesso destino: quello di essere state esposte a pericoli di cui non conoscevano l’esistenza e dai quali non potevano proteggersi.
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