Troppo spesso a parlare dell’Africa sono i non africani e, anche se animati dalle migliori intenzioni, le loro parole sorgono al di fuori di quel mondo che vorrebbero far comprendere. Questo libro capovolge la prospettiva, ma non commette l’ingenuità di credere che il testimone diretto di un’esperienza ne sia il miglior conoscitore. Per questo sono due gli ingredienti che lo compongono. In “Io sono Zawadi” a parlare è un ragazzo tanzaniano, che si presenta così: “Sono nato con disabilità fisica nelle mani e nei piedi; a causa di questo non posso camminare e prendere gli oggetti con le mani, non riesco a deglutire bene e sbavo, anche il linguaggio di conseguenza mi è molto difficoltoso e le persone non riescono a capire ciò che voglio dire”. A questa spietata autopresentazione, però, non segue il lamento penoso o il grido rabbioso di chi è stato colpito dalla sventura. Zawadi narra la sua storia, una storia che viene dall’interno di una cultura di cui è convintamente parte, una cultura a cui sente profondamente di appartenere, che ha la grandezza di esaminare con distacco e che aiuta il lettore occidentale a capire, come se fosse condotto per mano da una guida esperta. Il secondo ingrediente è di un bianco, il professor Mario Pinotti, il presidente della Nyumba Ali, che non conosce l’Africa dalla prospettiva interna di un nativo e, con le sue inserzioni, tenta di gettare ponti tra i due punti di vista che si incontrano: il tanzaniano e l’italiano. Lo fa provando a ricordare al lettore italiano una visione del mondo che è stata dell’Italia contadina preindustriale, oggi volatilizzata, ma forse non del tutto se è vero che certe convinzioni sulla vita, sulla malattia, sul corpo, sulla medicina e sul valore delle persone non sono del tutto scomparse. Ed è partendo da qui che i due mondi possono parlarsi.
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