L’amaca è sempre stata sinonimo di estate, relax, riposo. Contemplare la natura nel suo lento ed inesorabile svolgersi seguendo i disegni strambi delle nuvole con le dita intrecciate dietro la nuca oppure ascoltando il suono melodioso del vento che passa attraverso la bassa vegetazione, ovvero percepire le svariate voci della natura: grilli, cicale, persino le odiate zanzare diventano più sopportabili. La sensazione che si prova è simile all’oblio, al nepente che scioglie tutti i mali, dimenticare i problemi quotidiani sentendosi cullare dolcemente in un limbo ristoratore. L’amaca è originaria delle Americhe, infatti si narra che Cristoforo Colombo tornando in Europa introdusse l’abitudine di far dormire i marinai sulle amiche tirate sugli alberi della nave invece che sul pavimento di legno.
Se dovessi pensare ad uno scrittore che più di tutti gli altri assomiglia ad un’amica direi Hemingway. Non solamente perché la sorella Marcelline, nel libro Un ritratto di famiglia e mio fratello Ernest Hemingway, ci informa che su un’amaca, durante le notti di luglio, erano soliti ripassare le tabelline, e non soltanto perché è stato uno scrittore molto legato all’estate, al caldo dei Caraibi, alla festa (nella casa di Key West era solito riposarsi e fumare stando sdraiato comodamente su un’amaca), alla rilassatezza di uno scrivere naturale che poteva permettersi lunghe pause di riflessione.
Ma il motivo per cui Hemingway mi ricorda le amache è soprattutto per il il suo modo di scrivere. Una prosa sicura, a cui puoi stringerti ed affidarti ma che può tradirti, destabilizzarti e farti cadere a terra da un momento ad un altro.
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